L'Oculo della Camera degli Sposi a Mantova di Andrea Mantegna
A cura di Manuela Moschin
Il 16 giugno 1465 Andrea Mantegna (1431-1506) scrisse a finto graffito la data di inizio dei lavori della Camera degli Sposi o "Camera Picta", come venne citata dai documenti, dove l'artista dipinse un ciclo di affreschi tra il 1465 e il 1474 per il Marchese Ludovico II Gonzaga per celebrare la dinastia della sua famiglia. La stanza quasi cubica è coperta da una volta a vela ed è situata nel torrione Nord di Castel San Giorgio a Mantova. La volta è costituita da un motivo decorativo a finto mosaico dorato, dove al centro si staglia un'apertura di forma circolare considerata la più complessa creazione prospettica del Quattrocento italiano. Alzando lo sguardo verso il soffitto della stanza si rimane affascinati dal prezioso Oculo, che si apre direttamente sul cielo azzurro cosparso di nuvole vaporose, dalle quali si scorge un volto umano, probabile autoritratto dell'artista.
Dal parapetto traforato, anch'esso dipinto in prospettiva e incorniciato da una ghirlanda di fiori e frutti, compaiono alcune figure cariche di significato simbolico. Putti alati quasi scultorei si affacciano curiosi dalla ringhiera sporgendo il capo verso il basso per assistere alla scena, infilandosi negli anelli o reggendosi sulla cornice.
I simpatici amorini alludono al governo e al potere perché ognuno di loro possiede un attributo che li rende tale: una canna di bambù, una mela e una coroncina di alloro come richiamo allo scettro, al globo e alla corona. Quelli dotati di ali di farfalla simboleggiano l'immortalità di Ludovico e Barbara nella memoria degli uomini, mentre gli altri putti alati alludono all'immortalità del potere legittimo della dinastia.
Sono presenti una pianta di arancio e un pavone, conosciuto come l'animale sacro a Giunone, che nella mitologia romana era la divinità del matrimonio e del parto.
Alcune dame di corte troneggiano dalla balaustra: da una parte vi sono tre donne con il capo scoperto, due di loro hanno i capelli acconciati, mentre una sola che sta tenendo in mano un pettine ha la chioma sciolta come simbolo della seduzione. Dall'altro lato ci sono due figure, una nobile con il capo coperto da un velo bianco, un chiaro riferimento a una donna sposata e un personaggio con un turbante a righe la cui identità risulta ancora incerta. Nell'insieme si tratta di un capolavoro caratterizzato da un raffinato virtuosismo prospettico che Mantegna ottenne mediante l'uso di scorci vertiginosi.
Si tratta di un affresco che si contraddistingue per la particolare capacità dell'artista di riprodurre uno sfondamento illusionistico, fortemente realistico.
Andrea Mantegna aveva una grande passione per la scultura classica, ne possedeva addirittura una collezione. Per realizzare i suoi dipinti utilizzava busti antichi creando effetti plastici e illusionistici. L'artista scoprì lo scorcio applicato alle anatomie inserendo richiami anticheggianti e particolari geologici naturalistici. Si formò nella bottega padovana di Francesco Squarcione (1397-1468), un eccellente maestro di costruzione prospettica, dal quale maturò anche il gusto per l'archeologia. Fondamentale per Mantegna fu anche l'incontro a Padova con Donatello, che gli tramandò le tecniche di applicazione della prospettiva. Il suo stile può essere definito classicismo archeologico, essendo molto interessato alla geologia, studiava le pietre e poi le rappresentava.
Le sue opere sono pervase da un sentimento nuovo per la natura, che pervade ogni dettaglio e da un'attenta fisionomia dei personaggi.