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Un calcio alla povertà

L’acquisto, da parte della Juve, di un calciatore di circa trent’anni al prezzo di 95 milioni di euro rappresenta una grande novità per il calcio italiano, visto che mai era stata investita una simile cifra per acquisire le prestazioni di un professionista del pallone. 
Si sa bene che i prezzi vengono fissati dal mercato, per cui, se un club impone una clausola rescissoria cosi alta per un suo giocatore ed un altro club è disposto a pagarla, pur di entrare in possesso di quell’atleta, nessuno certo può contestare nulla e rimane, unicamente, da applaudire allo sforzo economico di chi immette tanto danaro in un sistema asfittico, come quello del calcio del nostro Paese. 
Infatti, quel danaro sarà – crediamo – reinvestito dalla società, che ha venduto il calciatore in questione, per cui si alimenterà un circuito, che da troppi anni era fermo e languente. 
Per cui, da questo punto di vista, indipendentemente dalla nostra fede sportiva, non possiamo che essere felici che, dalle parti di Torino, la famiglia più potente d’Italia abbia deciso di fare una simile scelta, che molto probabilmente però non sarebbe stata fatta, qualora fosse stata viva la generazione di Umberto e Gianni Agnelli. 
Vediamo, un po’, le ragioni di una scelta diversa, che noi siamo certi avrebbero compiuto i nonni degli attuali gestori della Juve. 
Immettere tanto danaro nel sistema calcistico, in un momento così delicato per l’economia italiana e mondiale, rappresenta obiettivamente uno schiaffo alla miseria, tanto più per una famiglia, come gli Agnelli, che invero non ha mai ostentato il proprio immenso potere economico e politico, visto che la differenza fra aristocratici e parvenu consiste proprio in ciò. 
Peraltro, c’è un dato importante: nel pubblico impiego, come in quello privato, si sta conducendo da tempo una politica all’insegna della sobrietà e del contenimento dei costi, per cui appare tanto più stridente spendere circa 190 miliardi delle vecchie lire per un calciatore, in età avanzata, quando non si rinnovano i contratti da tempo e quando, in particolare, con la riforma pensionistica si allunga la vita lavorativa di tante persone, condannate a rimanere sul luogo di lavoro, nonostante l’età avanzata. 
Ostentare la propria ricchezza e, quindi, dare uno schiaffo alla miseria altrui sembra – per dirla alla maniera degli antichi Greci – un autentico atto di “iubris”, un segno di arroganza e di tracotanza, che il Destino potrebbe punire. 
Certo è che, fra vecchi e giovani, la mentalità non può che essere diversa, ma appare evidente la differenza di comportamento e di approccio, che avrebbero avuto gli esponenti di un capitalismo, che purtroppo non c’è più. 
Si obietterà alle mie ragioni, affermando che il dio calcio non ha una morale, ma invero la invocano (o dovrebbero farlo) i giovani che non hanno lavoro, gli esodati espulsi dal mondo della produzione, i tantissimi lavoratori che hanno perso potere d’acquisto in assenza dei rinnovi contrattuali. 
Ma, come si dice, lo spettacolo deve continuare e, fino a quando nessuno interverrà a moralizzare un ambito lavorativo, come quello del calcio, continueremo ad assistere ad evidenti contraddizioni, che non possono che, ulteriormente, far soffrire quanti un calcio al pallone non lo sanno dare, almeno, con le medesime capacità tecniche di un furbo mercenario proveniente dal Sud-America. 



Rosario Pesce

 

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