Un discorso sobrio e severo
Il discorso di insediamento del Presidente Mattarella è stato assolutamente sobrio e severo, come nello stile del nuovo Capo di Stato, ma altrettanto incisivo, in quanto ha denotato i caratteri fondamentali dell’operato di chi sarà ai vertici della Repubblica nel prossimo settennato.
È ben noto, infatti, che Mattarella sia persona di pochissime parole, cosa che rappresenta, certamente, una virtù per chi deve assumere responsabilità del suo peso.
Egli non sarà – noi auspichiamo e crediamo – un mero notaio dello Stato, ma, in ogni momento cruciale della vita repubblicana, saprà essere di guida per il Parlamento e per il Governo, compatibilmente con le prerogative, che la Costituzione riconosce all’inquilino del Quirinale.
La sua esperienza pregressa, sia a livello politico che accademico, costituisce invero una garanzia di non poco valore: gli anni della sua formazione partitica in Sicilia, quando, con il supporto di Leoluca Orlando, combatteva dall'interno la Democrazia Cristiana di Ciancimino, Lima e della corrente andreottiana, hanno contribuito a formarne il carattere, per cui potrà gestire adeguatamente le preoccupazioni – pur legittime – per la nuova funzione, che va ad assumere.
Nelle prime settimane del mandato presidenziale, si presenteranno sul suo tavolo dei dossier, che lo impegneranno non poco, visto che arrivano ad approvazione definitiva provvedimenti, che segneranno, in modo decisivo, lo sviluppo della storia delle nostre istituzioni, a partire dalla legge elettorale, il cui iter di approvazione è stato sufficientemente problematico e, molto probabilmente, lo sarà fino al suo varo definitivo, dal momento che il rassemblement parlamentare, che lo ha reso possibile, è trasversale agli schieramenti tradizionali di maggioranza e minoranza.
Peraltro, la stessa elezione di Mattarella ha dimostrato che, nelle odierne Camere, le maggioranze possibili sono davvero molteplici, sebbene tutte non possano non ruotare intorno al ruolo centrale del PD e di Renzi, in particolare, con il quale il Capo dello Stato intratterrà necessariamente un rapporto quotidiano ed intenso, com’è stato - d’altronde - quello del suo predecessore, che - per moltissimi anni - è stato il vero protagonista della complessa dinamica istituzionale.
In assenza di partiti autorevoli e forti, come erano quelli della Prima Repubblica, nei quali si è formato il neo-Presidente, è ineluttabile che chi occupa i massimi vertici dello Stato non solo sia un arbitro dei destini partitici, ma sia - in parte - anche un facilitatore di relazioni e dinamiche virtuose, visto che l’intero Paese guarda all’inquilino del Quirinale come la più autorevole sintesi delle culture politiche della nazione e, dunque, come il garante non solo di equilibri delicatissimi, ma finanche di rapporti, che devono essere costruiti in vista dell’unico interesse legittimo del Bene pubblico.
Pertanto, dall’alto della sua autorevolezza morale, Mattarella, in modo auspicabilmente indiscusso, saprà essere punto di riferimento di tutti gli Italiani e sarà in grado di ridurre il contenzioso in un momento storico nel quale, invece, la contrapposizione rischierebbe di essere gravemente deleteria per lo Stato, visto che si alimenta di scontri, che ben poco hanno di costruttivo.
Sarà non facile, soprattutto, la gestione della dialettica fra i poteri dello Stato, dato che i partiti, sovente, hanno la tentazione di attaccare la Magistratura ed il potere giudiziario, quando - attraverso l’esercizio dell’azione giurisdizionale - inevitabilmente i percorsi individuali di componenti significativi del ceto politico si interrompono drasticamente.
Richiamando i valori supremi della Costituzione del 1948, di cui dovrà essere garante, Mattarella ha indicato i riferimenti culturali, ai quali si ispirerà nel corso del settennato: essi dovranno essere sempre più condivisi - in virtù della sua prassi presidenziale - dalla pubblica opinione e dagli stessi rappresentanti istituzionali, che – invece – tendono, a volte, ad allontanarsene in modo sempre più marcato.
L’elezione del leader siciliano non può che essere una notizia felice per un Paese, che vive una condizione infelice: in tal senso, non ha sbagliato chi, come Eugenio Scalfari, ha paragonato l’elezione del nuovo Capo di Stato a quella di Papa Francesco, volendo sottolineare che le due personalità condivideranno il percorso di riforma dei rispettivi Stati, che presiedono, alla luce di principi morali tanto ferrei nell’enunciazione, quanto integerrimi nell’applicazione concreta.
Rosario Pesce