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Un omaggio ad un artista e ad un uomo

Pino Daniele non è, semplicemente, un artista fra i moltissimi, che ha avuto la musica leggera italiana, all’apice del suo successo, fra gli anni ’70 e ’90 del secolo scorso. 
Egli è, innanzitutto, il Genius Loci di una città, l’artista che ha consentito alla città di Napoli di togliersi di dosso la vergogna del colera e dei luoghi comuni, che sono - generalmente - addebitati al capoluogo partenopeo da una stampa tanto ignorante, quanto in malafede. 
Egli è stato quello che ha realizzato la più felice fusion fra generi diversi, mettendo insieme il blues dei Neri, importato dagli Americani, quando questi arrivarono a Napoli, dopo la Liberazione, con la tradizionale musica partenopea, concretizzando il più felice connubio possibile fra il ritmo e la melodia, fra il romanticismo e lo spartito musicale che, pur mai in modo urlato, aveva un contenuto politico dirompente. 
Egli è stato il vertice di una genìa di artisti napoletani, da Senese a De Piscopo, da Buonocore a Zurzolo, che hanno segnato la storia della musica strumentale italiana: lui era la voce e la chitarra; gli altri, tutto il resto. 
Egli è stato il grande amico di Troisi, colui che ne ha condiviso il successo e, purtroppo, la modalità della morte, visto che entrambi sono stati in vita, notoriamente, perseguitati da quella malattia di cuore, che è un po’ lo stigma dell’artista, che soffre proprio con l’organo che maggiormente sollecita. 
Egli è stato l’artista triste, che ha portato con sé sempre un velo sottilissimo di malinconia, capovolgendo lo stereotipo del Napoletano solo pizza, maccheroni e mandolino. 
Egli è stato l’artista che ha scoperto decine di giovani, che sono poi diventati musicisti e cantanti di grande successo: una su tutte, Giorgia, a lui deve moltissimo, in particolare nei primi anni della sua fulgida carriera. 
Egli è stato l’artista che, conversando con Minà e con i più importanti giornalisti, ha dimostrato che la musica di una città poteva divenire internazionale, solo se si fosse contaminata con altri generi ed altre sonorità, senza però mai perdere il suo tratto distintivo: la lingua dialettale. 
Egli è stato quello che ha messo insieme il vernacolo di Salvatore Di Giacomo con lo slang americano, dimostrando che una tradizione si vivifica, se non si chiude in se stessa, ma è capace di accogliere i migliori elementi delle altre culture, facendone una sintesi, alla cui conclusione prevalgono sempre la creatività ed i tratti artistici di chi sa, saggiamente, mettersi in discussione. 
Egli è stato colui che ha rappresentato, per molti, l’immagine del riscatto meridionale, chiamato ad esibirsi nei più grandi teatri europei ed americani, nonostante non avesse il retroterra mediatico di De André o di Vecchioni. 
Egli è stato il modello di, almeno, un paio di generazioni, che con lui hanno coltivato, ad un tempo, il sentimento della tradizione ed il desiderio del cambiamento, giungendo alla realizzazione di un prodotto finito – la musica, appunto, di Daniele – che rimarrà eterna nella storia della discografia. 
Egli è stato l’uomo immagine del blues-rock in una fase storica nella quale questi due generi avevano esaurito, in Inghilterra ed in America, la loro portata rivoluzionaria, perché nessun filone musicale, se non torna alle origini, può vivere per un tempo più lungo di una generazione. 
Egli, infine, è stato Pino Daniele, l’artista che ci porteremo dietro, in ogni istante della nostra vita, perché nessuno, come lui, ci ha permesso di rendere soavi i giorni di cupezza e di trasformare in uno splendido idillio ciò che, per altri, sarebbe stato solo un segno disdicevole. 
A modo suo, quasi per ossimoro, è stato un grande romantico ed un grandissimo nichilista: romantico, perché ci ha educati al sentimento; nichilista, perché ci ha permesso di capire che la vita può cessare, anche, nella frazione di un istante e, per questo, merita di essere vissuta, ricercando - in modo spasmodico - i veri piaceri dell’anima, gli unici in grado di eternarla per davvero. 



Rosario Pesce

 

 

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