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Un esonero imprevisto

Dedicare un articolo all’esonero del mister di una squadra blasonata del calcio italiano può apparire esercizio futile, ma induce a riflessioni sul sistema sportivo e sulla mentalità, purtroppo esistente nel nostro Paese, finanche a livelli importanti di direzione economica. 
La vicenda è nota: Mazzarri, allenatore dell’Inter, con contratto lordo annuo di circa 7 milioni di euro, appena prolungato ed in scadenza nel giugno 2016, viene esonerato perché i risultati non sono stati finora all’altezza delle aspettative della tifoseria, abituata - fino a qualche anno fa - a ben altri spettacoli tecnici. 
Per rilanciare l’Inter, dunque, viene assunto un allenatore di grande fama, Mancini, il quale costa circa il doppio del suo predecessore e, soprattutto, firma un contratto triennale, per cui, sommando l’impegno finanziario per pagare i costi del mister esonerato e di quello subentrante, complessivamente una società, in gravi difficoltà finanziarie e sotto controllo degli organismi europei, prevede di spendere nel prossimo triennio circa 35 milioni di euro, cioè 70 miliardi di lire del vecchio conio, come - un tempo - diceva un noto presentatore televisivo. 
Il tutto accade in un momento tragico non solo per la società milanese, ma per l’intero sistema italiano, visto che il calcio del nostro Paese non è, al momento, competitivo con quello inglese o spagnolo o tedesco, perché produce molti costi e non è in grado di generare i profitti, invece copiosi oltralpe. 
Peraltro, il mondo del pallone presenta un grande limite, che la vicenda interista conferma a pieno: il difetto di programmazione. 
Come si può esonerare un allenatore, a cui il contratto è stato rinnovato nella scorsa estate, non più - quindi - di pochi mesi or sono, solo perché non gode della fiducia dei tifosi? 
Siamo tornati ai tempi dell’antica Roma, quando l’imperatore decideva le sorti del gladiatore ferito, alzando o abbassando il dito pollice, mentre percepiva gli umori della gente, che affollava l’Anfiteatro? 
Come si può assumere un nuovo coach, ad un costo quasi raddoppiato rispetto a quello dell’uscente, quando si è gravemente fuori dai parametri del fair play imposti dall’Uefa? 
Si potrà dire che il calcio è una scommessa e che, pertanto, vale la pena viverlo con questo spirito ameno, tanto più quando ad essere messi in gioco sono capitali privati. 
La risposta è sensata, ma non è sufficiente: un po’ di cultura della programmazione avrebbe imposto che cifre così faraoniche venissero spese per comprare giovani talenti da valorizzare, al fine di fare del calcio un’azienda con i conti a posto, ovvero la logica, tipica di altri Paesi, avrebbe richiesto che i medesimi capitali fossero investiti per organizzare delle scuole, dove allevare i ragazzini destinati a diventare i campioni del prossimo futuro. 
D’altronde, il calcio nostrano difetta di nuovi Pirlo o Totti, per cui il danaro, laddove c’è, merita di essere speso per lanciare sul grande proscenio quanti, pur avendo le capacità tecniche, non riescono ad imporsi, perché nessun vivaio li ha mai educati nel modo più appropriato. 
Come si arguisce, mentre si predica un cambio di mentalità, si continua a ragionare alla vecchia maniera, annullando ciò che è stato realizzato appena il giorno precedente e procedendo, dunque, in modo precario ed incerto, in assenza di un progetto di fondo ben definito. 
Inoltre, c’è un dato significativo: l’economia italiana non consente, oggi, nuove forme di mecenatismo, per cui investire, senza un sicuro ritorno commerciale, è davvero un’operazione folle, che non può che ledere gravemente gli interessi di chi, nel 2014, immagina di agire alla medesima maniera degli anni Ottanta o Novanta del secolo scorso. 
Forse, nel Paese dell’improvvisazione, il calcio è la vera cartina di tornasole, per cui difetti e limiti dell’animo italico possono essere letti attraverso la lente di ingrandimento offerta da un fenomeno sociale importantissimo, qual è lo sport più amato dagli Italiani? 
Forse, bisogna rifondare lo spirito d’azienda, visto che c’è chi, tuttora, pensa che lo Stato possa, poi, intervenire in aiuto di chi sbaglia - in maniera grossolana - un investimento rilevante, mettendo in pericolo capitali che potrebbero essere spesi ben più proficuamente? 
Ci piace pensare che il calcio sia migliore della società, che lo osanna, innalzandolo agli altari di una fede laica, ma purtroppo dobbiamo constatare che la saggezza e la parsimonia, derivanti da un sentimento innato di rispetto del sé e del prossimo, ancora tragicamente difettano. 



Rosario Pesce

 

 

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