Il mercato fantasma
Si concluderà, fra pochi giorni, la sessione di calciomercato più asfittica che la storia ricordi: ormai, da qualche anno, le società di calcio italiane non hanno la medesima forza contrattuale sul mercato internazionale, che invece hanno le squadre inglesi e spagnole, per cui, contrariamente a quello che accadeva negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, l’Italia non attrae più i grandi campioni, i quali, se provengono dall’area sudamericana, al più utilizzano il campionato italiano come mero trampolino di lancio per poi trasferirsi nelle nazioni, che possono garantire loro stipendi ben più generosi dei nostri.
Gli elementi, che hanno determinato una condizione simile, sono molteplici: innanzitutto, il regime fiscale italiano è molto più rigido di quello degli altri Paesi europei, per cui, inevitabilmente, in busta paga le società del nostro campionato non possono non versare meno danaro di chi, come Spagnoli ed Inglesi, ha un’aliquota più bassa.
Inoltre, le altre nazioni hanno introiti notevoli dal merchandising, che, nel nostro caso, invece rappresenta un’entrata, ancora, da sviluppare e potenziare, perché esiste un mercato del falso che sottrae ricchezze in abbondanza a quello legale.
Infine, c’è un aspetto fondamentale, che va preso in considerazione: la Lega calcio, solo, negli ultimissimi tempi si sta aprendo al contributo di investitori stranieri, che portano con sé ingenti patrimoni, mentre, per molti anni, è stato prevalente un regime autarchico, che, certo, non ha favorito la crescita complessiva del movimento calcistico; basti pensare che, oggi, i principali investitori extra-europei sono gli sceicchi arabi che, acquisita la proprietà di club, anche non blasonatissimi, hanno invaso il mercato del vecchio continente e sono in grado di spendere decine di milioni di euro, finanche, per un calciatore non di primissima fascia, per cui l’intero calciomercato si altera ed i nostri presidenti, condannati all’autofinanziamento attraverso la partecipazione alle competizioni europee più prestigiose, non possono che assistere del tutto inermi all’avanzamento altrui e al progressivo proprio impoverimento.
Così, accade che Ronaldo e Messi non verranno mai a giocare in Italia, ma anche la giovane speranza, magari appena messasi in luce al Campionato Mondiale in Brasile, preferisce seguire le tracce del grande campione affermato e, se può, opta per un club non italiano.
Gli unici, che fingono di non capire la dinamica attuale, sono i giornalisti ed, in particolare, chi lavora per le trasmissioni televisive, che parlano di siffatti argomenti ventiquattro ore al giorno, per tre mesi consecutivi: essi sono, infatti, costretti ad ipotizzare l’acquisto della stellina decaduta o del giovane, che potrà divenire campione, ad opera delle squadre italiane più rinomate; d’altronde, se il mercato non c’è, bisogna - in buona fede - inventarselo, pur di offrire una ragione alla propria esistenza professionale.
Naturalmente, gli acquisti, da loro ipotizzati, probabilmente non si realizzeranno mai, ma qualcuno potrà dire, con malizia, che comunque la stessa cosa avveniva, anche, quando il calcio italiano imperava in Europa e dettava legge sui mercati sudamericani.
Certo è che il calcio è divenuto la vera cartina di tornasole della crisi del sistema Italia e, come in altri settori, nonostante la condizione di disagio, non si intravede alcuna possibilità seria di riforma, che possa rianimare ciò che è prossimo alla stagnazione.
Tre riforme sono auspicabili, perché si esca dalla condizione attuale: ridefinizione dei campionati professionistici, con conseguente riduzione dei club nelle tre Serie; rimodulazione del regime fiscale; incentivazioni per la creazione di stadi, che non siano aperti solo il giorno della partita, ma che possano essere in funzione nei giorni infrasettimanali, con una destinazione d’uso che assicuri, comunque, proventi costanti alle società di calcio, che ne devono divenire proprietarie, così come accade già nel resto d’Europa.
Il calcio non è solo uno spettacolo, ma è soprattutto un fenomeno sociale, che coinvolge milioni di Italiani, che, nelle vesti più diverse, sono attratti dalla partita domenicale e sono pronti a spendere molto danaro – relativamente alle proprie possibilità – pur di assistere all’evento e di esserne, in qualche modo, protagonista.
Se esiste, orbene, una platea di clienti, che aspetta solamente di essere messa nelle migliori condizioni per spendere, perché non si creano le occasioni giuste, affinché siffatte risorse siano assorbite dal sistema sportivo ed utilizzate per una pronta rigenerazione?
E la politica dov’è?
Eppure, la creazione di nuovi impianti sportivi sarebbe un momento di crescita importante per le nostre città, le quali, partendo dallo stadio da costruire o da ristrutturare secondo le nuove logiche, potrebbero ridisegnare il proprio volto urbanistico, immaginando una diversa distribuzione degli spazi e delle funzioni all’interno del tessuto cittadino, a volte caotico oltre ogni misura lecita.
Il calcio non può sostituire, in termini di volano economico, gli Uffizi o l’area archeologica di Pompei, ma una bella partita, giocata in un contesto, che inviti al consumo, può consentire una circolazione monetaria non irrilevante e può rianimare quel turismo di qualità, che invero non intende fermarsi alla fruizione del solo evento sportivo.
Si può essere così ciechi, da non capire che un’occasione di profitto, non solo per pochi investitori, può tramutarsi in un fattore di crescita per un Paese intero, che ha perso una parte essenziale della propria identità e che ha, finanche, svilito il valore commerciale del proprio tradizionale “petrolio”, cioè i beni artistici e culturali?
Rosario Pesce