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Una vita da mediano

La nomina di Lele Oriali, per il delicato ruolo di team manager della Nazionale italiana, ci induce delle riflessioni, che intendono andare oltre il merito strettamente calcistico della notizia. 
Con la nuova gestione della Federcalcio, i due più delicati ruoli, all’interno del club della Nazionale, sono stati affidati ad ex-mediani, Conte ed Oriali, i quali rappresentano il calcio italiano di generazioni diverse, anche se essi hanno molti tratti in comune. 
Entrambi vincenti, sia con la maglia azzurra, che con quella della propria squadra di appartenenza, i due ex-calciatori sono stati sul terreno di gioco dei mediani molto importanti. 
Come sappiamo bene, quello del centrocampista rappresenta, nel calcio, il ruolo del lavoratore per definizione, perché compiti del mediano sono quelli di correre incessantemente per tutti ed i novanta minuti della gara, recuperare palloni, assolvere alle mansioni tipiche di un gregario, giocare in fase offensiva, potendo però finalizzare in pochissime occasioni e, come si dice in gergo, “portare la Croce”, cioè essere di supporto alle giocate dei calciatori più brillanti da un punto di vista tecnico, che necessitano del sostegno fisico del compagno, che sul campo riversa agonismo a go-go, per sopperire ai propri deficit tecnici. 
Orbene, il mediano è divenuto, anche per effetto di un celebre testo di Ligabue, metafora della vita: nell’esistenza giornaliera, non è sempre possibile trovare di fronte a sé dei campioni, la cui intelligenza e le cui capacità siano al di sopra della media, ma l’umanità è in gran parte composta da mediani, da persone cioè dotate di mezzi nella norma, che, attraverso il lavoro e la volontà, riescono a raggiungere i loro obiettivi, colmando così il gap con chi, obiettivamente, ha una marcia in più sotto altri profili. 
La vita, dunque, prevede l’esaltazione di chi, attraverso il lavoro, riesce a mettersi alla pari con chi fa meno fatica per evidenziarsi nella moltitudine; peraltro, quella del mediano è metafora, in questo momento, pure delle condizioni reali del nostro Paese. 
Fino a qualche decennio fa, infatti, l’Italia era conosciuta nel mondo per i suoi immensi talenti, artistici e culturali, per le eccellenze che in ogni epoca – soprattutto, nel corso del Rinascimento - hanno fatto sì che il nostro Paese assurgesse ad un primato su molte altre nazioni europee, benché non avessimo ancora conosciuto la forma Stato, contrariamente al resto d’Europa. 
Oggi, invece, la condizione dell’Italia è cambiata radicalmente: i talenti, in ogni settore della vita civile, sono costretti ad emigrare, perché il sistema sociale e quello della produzione non consentono loro di dispiegare le proprie qualità in modo compiuto, dato che non si dà più il giusto rilievo al merito; stiamo divenendo un Paese essenzialmente per “mediani”, per cui altre sono le capacità ed i meriti, che vengono ricercati nell’interlocutore, ben al di là della classe cristallina e del talento innato. 
Per usare un’altra metafora, in sintonia con quella mutuata dal lessico calcistico, siamo divenuti – paradossalmente, in un’epoca post-industriale - una realtà più “operaia”, mentre nel recente passato l’arte, l’industria, la cultura, la politica, l’economia avevano esaltato la presenza di quell’aristocrazia dell’intelletto, che pare essersi dissolta con la crisi del capitalismo nostrano e, soprattutto, con l’entrata nel nuovo secolo. 
È, solo, un’impressione di chi scrive o, forse, effettivamente la qualità pare non essere più un parametro su cui costruire la società che sia in grado, nei prossimi anni, di ambire ad un futuro aureo? 
Siamo, davvero, tutti condannati a lavorare e a produrre entro una logica tipica dei gregari o c’è spazio, ancora, per chi ha talento e qualità da vendere? 
D’altronde, si può essere anche mediani, ma, se si svolge quel delicato compito, come sul campo da gioco hanno fatto Conte ed Oriali, il più oscuro centrocampista può essere sublimato e parificato alla migliore stella, di cui la squadra è dotata. 
Per tornare a Ligabue, i polmoni devono per forza prevalere sui piedi? 


Rosario Pesce

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