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Se non cambia il calcio italiano…

La vicenda dell’elezione di Tavecchio, che si sta colorando di giallo, dopo le sue farneticanti dichiarazioni, in merito ai calciatori extra-comunitari, mette in risalto la qualità dei padroni del calcio italiano: in modo particolare, i Presidenti delle squadre di serie A hanno scelto, nei giorni scorsi, come successore di Abete, il Presidente attuale della Lega Dilettanti, per un mero calcolo di opportunità, visto che egli aveva già la maggioranza dei voti federali, in virtù del consenso acquisito dagli stessi Dilettanti, dalla Lega di Serie Pro e da quella di Serie B. 
Peraltro, nonostante molti di loro si siano dichiarati, in passato, a favore di un cambiamento radicale, salendo sul carro di Tavecchio, invece, hanno dimostrato di scegliere la continuità, rappresentata appunto da un dirigente che, per molti anni, ha avuto responsabilità importanti all’interno del massimo organo di gestione e direzione delle vicende calcistiche nel nostro Paese. 
È evidente a tutti che ai proprietari dei club interessi, non poco, la spartizione degli enormi proventi derivanti dalla vendita dei diritti televisivi, legati alle tecnologie satellitari, gestite dalle piattaforme delle televisioni a pagamento. 
È noto che, in Italia, esistono due grandi monopoli, Sky e Mediaset, rispettivamente per il digitale satellitare e per quello terrestre, per cui le due società suddette, collaborando da diverso tempo, si dividono - in modo soddisfacente per entrambe - il mercato che non assicura, comunque, i medesimi profitti, che vengono garantiti dalla vendita delle partite del calcio spagnolo e di quello inglese. 
Nel nostro Paese, infatti, il mercato dei diritti televisivi non è cresciuto come altrove, pur rappresentando la principale entrata dei club italiani che, contrariamente a quelli dell’Europa più ricca ed avanzata, non riescono a trarre proventi analoghi dal marketing e dalla gestione degli stadi, visto che da noi questi ultimi sono, ancora, di proprietà pubblica e, dunque, non possono essere gestiti direttamente dal club, secondo una logica di tipo squisitamente privatistico. 
Fino a qualche anno fa, le società calcistiche più importanti erano nelle mani del grande capitale italiano, come nel caso di Moratti, Berlusconi ed Agnelli. 
Negli ultimi due decenni, per effetto del fallimento di talune famiglie, sono entrate nello sport più amato nuove energie, che dovrebbero sollecitare il cambiamento, anche per acquisire posizioni di forza all’interno della Lega. 
È il caso di De Laurentiis, Della Valle, Thohir, degli Americani che hanno comprato la Roma, almeno in parte, dalla precedente proprietà, rappresentata dalla Banca italiana più importante, oggi, esistente. 
Nonostante queste condizioni di contesto, il calcio si dimostra molto lento nell'innovazione e, come evidenzia la vicenda Tavecchio, probabilmente solo l’intervento del Governo – sia pure attraverso la “longa manus” del C.O.N.I. – impedirà l’elezione di un candidato, che ha perso autorevolezza per effetto delle dichiarazioni, di cui abbiamo già detto. 
Quando, finalmente, il capitalismo italiano si dimostrerà maturo, realizzando una svolta effettiva, svincolata da interessi egoistici, che non consentono la crescita del sistema sportivo nel suo complesso? 
In un altro Paese, ad esempio, i Presidenti dei club avrebbero convinto Tavecchio a desistere, poche ore dopo lo scoppio del caso; qui, invece, si dimostrano sodali di una personalità che – anche, indipendentemente dal suo indubbio valore, che non intendiamo discutere – è divenuta, comunque, scomoda ed invisa agli organismi internazionali che, per loro compito istituzionale, devono esercitare il controllo sulle Federazioni nazionali. 
È mai possibile che i signori del calcio italiano attendano di essere commissariati dal C.O.N.I. o dalla U.E.F.A., perché si dimostrano incapaci di realizzare un’autonoma e condivisa iniziativa politica? 

Rosario Pesce

 

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