In fondo, non è solamente una partita di calcio...
Raccontare una partita di calcio è esercizio non facile, tanto più quando questa termina con un risultato inatteso e larghissimo; il riferimento va, naturalmente, alla semifinale del Mondiale, Brasile-Germania, che ha visto la sconfitta sonora dei padroni di casa, mai effettivamente scesi in campo, a tal punto da rendere il compito fin troppo facile ai loro avversari, i quali, presi dallo sforzo e dallo stress del match, non hanno avuto, forse, neanche la percezione esatta della assoluta vacuità del loro antagonista.
Non vogliamo entrare nel merito, tecnico e tattico, della disamina della partita, che spetta agli allenatori ed ai giornalisti esperti di sport, ma ci interessa fare un’analisi un po’ più ampia, visto che un incontro di calcio ha delle valenze, che vanno ben oltre il mero dato agonistico e sportivo.
Nelle settimane scorse, abbiamo esaltato le capacità organizzative del Brasile che, con il Mondiale odierno e le Olimpiadi prossime del 2016, si è proposto alla ribalta internazionale, dando ampia conferma dei notevoli progressi economici, compiuti nell’arco dell’ultimo decennio, che consentono oggi allo Stato sudamericano di essere una delle potenze emergenti insieme a Cina, India, Indonesia.
Il successo sportivo, qualora fosse arrivato, sarebbe stato il perfetto suggello, che avrebbe permesso al Brasile di confermare la propria leadership nel continente americano e di proporsi come punto di riferimento essenziale per tutte quelle nazioni, che ambiscono a non rimanere sotto l’egida, politica e commerciale, del nemico di sempre: gli Stani Uniti.
Non è un caso se le analisi, condotte da economisti molto qualificati, sostengono che un successo sportivo importante, come la vittoria di un Mondiale di calcio, è uno dei fattori più rilevanti di promozione del P.I.L. di un Paese, visto che può determinarne l’incremento per svariati punti percentuali.
La sconfitta, invece, sonora e meritata, ha fatto emergere un volto diverso di quel popolo, che denuncia le debolezze e le criticità di uno Stato che, pur essendo in crescita esponenziale, presenta ancora limiti, che ne offuscano l’immagine sul piano internazionale, frenando non poco i desideri egemonici, che il ceto dirigente brasiliano nutre, ormai da tempo.
La partita di ieri sera è stata la cartina di tornasole di tali deficit: da una parte, si è vista una squadra psicologicamente debole ed intenta molto più alla bella giocata, che non all’efficacia della stessa, mentre dall’altra parte si è ammirato un team che - specchio fedele della nazione, che rappresenta - incarna i valori fondamentali del popolo tedesco: senso della gerarchia, preparazione certosina, poco spazio allo spettacolo e molta attenzione, invece, alla concretezza e al perseguimento, in modo lucidamente razionale, dell’ambizioso obiettivo, per cui si era scesi in campo.
È inevitabile che una squadra, così costruita, pur non contando su individualità di valore assoluto (la nazionale tedesca non vanta, fra le sue fila, né Neymar, né Messi), riesce a fare del collettivo il suo principale punto di forza, così come avviene nella società tedesca, dove ciascun individuo o classe, cosciente del proprio compito e della conseguente utilità dello stesso, spende le sue energie per assolvere alla mansione assegnata, senza perciò eccedere o, peggio ancora, perdersi in atteggiamenti narcisistici, che creerebbero solo grave nocumento al consesso sociale.
Così, un collettivo diventa una perfetta orchestra, al cui interno nessuno degli strumentisti immagina di poter divenire solista, danneggiando chi gli è prossimo; in termini moderni, la prestazione della nazionale tedesca, ammirata contro il Brasile, sembrava la realizzazione plastica dei valori contenuti nel famoso discorso di Menenio Agrippa: una perfetta sintesi fra lo spirito latino, teso alla costruzione di virtù socialmente condivise, e l’heimat tedesco, proteso invece alla vittoria e all’affermazione di un primato, immaginato come intrinseco al proprio d.n.a.
Forse, si rischia di dare eccessiva importanza ad un successo che, negli annali della storia, sarà ricordato solo per l’esito meramente sportivo, ma certamente ieri sera la vecchia, cara Europa ha riguadagnato qualche punto rispetto al Nuovo Mondo, dimostrando che, anche forse presentando valori tecnici inferiori all’avversario, con l’abnegazione e l’ordine, mentale ed organizzativo, si possono raggiungere traguardi ancora preclusi a chi, solo ora, sta tentando di riscattarsi da condizioni di disagio e di debolezza, che qualche ragione d’essere pure affondano nella mentalità di popolazioni, che non hanno sviluppato, in forma piena, il senso della competitività e non hanno compreso che, in taluni casi, lo spirito decubertiniano, pur ammirevole, deve lasciare il posto al conseguimento, immediato ed indiscusso, del successo tout court.
Naturalmente, a noi Italiani non può che arrecare piacere un improbabile elemento consolatorio: nel calcio (come nella politica europea) gli unici ad essere, tuttora, temuti dai Tedeschi siamo noi, forse solo perché la grandezza dell’Impero Romano, ancora, non è stata uguagliata da nessuno dei tre Reich germanici?
Rosario Pesce