Il fallimento del calcio italiano...
Uno dei dati di cronaca, che emerge in questo primo scorcio di estate, è rappresentato dal fallimento della spedizione calcistica italiana in Brasile: per la seconda volta consecutiva, la nostra Nazionale esce al primo turno della principale competizione mondiale, senza né aver mai palesato un’organizzazione pur minima di gioco, né essere stata competitiva, pur avendo sfidato avversari, solo, di seconda fascia.
Un tempo, il calcio era il fiore all’occhiello dello sport italiano, perché ci regalava vittorie e soddisfazioni a go-go, sia quando giocava la Nazionale, sia quando ad essere protagoniste erano le squadre di club che, nel recente passato, hanno conquistato trofei, europei ed intercontinentali, di assoluto prestigio.
Oggi, invece, le vittorie latitano ed il Paese, impoverito da un punto di vista economico, arretra nelle classifiche sportive: ormai, siamo diventati una realtà non più all’avanguardia nelle gerarchie internazionali, anche laddove, fino a qualche anno fa, brillavamo ed eravamo in competizione con i più forti al mondo.
Perché, allora, una simile decadenza?
Gli errori tecnici, che sono stati commessi nella gestione del fenomeno calcio negli ultimi decenni, sono stati innumerevoli: basti pensare all’arretratezza dei nostri stadi, che sono ancora quelli di Italia ’90, ovvero una riflessione andrebbe fatta sulla conduzione dei settori giovanili delle squadre più importanti della massima Serie, ormai ridotti in condizioni davvero deprecabili, visto che non si individua più nei giovani un interesse centrale nelle politiche di investimento da parte, neanche, dei gruppi finanziari più importanti e facoltosi, presenti nel calcio italiano.
Siamo, dunque, al cuore del problema: esistono, ancora, nel nostro Paese le condizioni perché ci siano gruppi economici solidi disposti ad investire nella principale industria del divertimento?
Appare evidente che i miliardari, come Berlusconi e Moratti, che nei decenni scorsi hanno immesso moltissimo danaro nel circuito calcistico, si siano ora tirati indietro: il primo starebbe per vendere una quota minoritaria del suo club, mentre il secondo ha, già, provveduto a cedere la quota di maggioranza del capitale sociale della sua Inter, a dimostrazione che le grandi holding finanziarie italiane si stanno sempre più allontanando dal calcio, perché considerato non più funzionale alle loro legittime ansie di crescita.
Rimane solo la Juve, tuttora della famiglia Agnelli, a credere nel calcio, anche se - negli anni dopo Calciopoli - la strategia di quella società è stata volta al recupero delle perdite derivanti dalla retrocessione in serie B, per cui il danaro, proveniente in modo copioso dalle vittorie dell’ultimo triennio, è servito a ripianare il debito societario e non ad implementare politiche di vera crescita, visto che la stessa costruzione dello stadio di proprietà ha comportato, finora, solo costi di ammortamento e non ha determinato, ancora, un autentico ritorno economico, come era facilmente prevedibile.
Inoltre, non bisogna dimenticare un aspetto fondamentale: il calcio ha subito, per decenni, la soggezione al mondo della politica nazionale e delle banche, per cui chi ha gestito il fenomeno calcistico, nel nostro Paese, è stato molto più attento nel non procurare dispiacere al padrone di turno, piuttosto che nel realizzare effettive svolte, che garantissero la crescita dello sport più amato dagli Italiani.
Non possiamo dimenticare che, ad esempio, solo ora è stato consentito agli stranieri l’ingresso nel calcio italiano, mentre per decenni è stato impedito, sistematicamente, l’arrivo di capitali dall’estero: se quei soldi, che ora servono a salvare società decotte dal fallimento, fossero entrati in Italia dieci anni fa, molto probabilmente sarebbero serviti a finanziare politiche di sviluppo e non a corroborare meri tentativi di salvataggio in extremis – peraltro, dall’esito ancora incerto – come è successo nel caso di società pur prestigiose, quali Roma ed Inter.
Anche sui temi della violenza, collegata al calcio, si è fatto poco o nulla: nessun legislatore ha avuto il coragggio di imporre lo scioglimento del tifo organizzato, attraverso un provvedimento ad hoc, per cui tuttora le società subiscono le minacce di gruppi, prossimi alla malavita, che impongono, in vario modo, forme vere e proprie di pizzo, che naturalmente allontanano dallo sport gli investitori internazionali, i quali non sono disposti a mettere il loro danaro nelle mani di criminali violenti e privi di scrupolo.
Vorremmo tornare noi stessi a tifare per l’azzurro della Nazionale, sperando che i successi recenti possano ripetersi a breve, ma il timore che il calcio sia la cartina di tornasole di un Paese in ginocchio è molto forte: forse, come in politica, anche nello sport è opportuno affidarsi all’Uomo della Provvidenza?
Rosario Pesce